Genitori: il nuovo protagonismo dei papà italiani

In occasione della Festa del papà è stata rilasciata l’ultima edizione dell’Osservatorio Eumetra Parents (and Grandparents), che offre una fotografia dei padri italiani oggi, tra preoccupazioni, aspirazioni e cambiamento del proprio ruolo all’interno della famiglia moderna. 

Di fatto, il 77% dei papà italiani è preoccupato per il futuro, con un picco di ansia (85%) tra coloro che hanno figli tra 0 e 3 anni. La principale fonte di preoccupazione è il tema economico, con un occhio particolare al rialzo dei prezzi (56%) e all’andamento dell’economia italiana (41%), seguiti dal cambiamento climatico (39%). 
E sebbene il 61% dei papà indichi una stabilità delle entrate, il 51% riferisce una diminuzione dei risparmi della famiglia.

Desiderio di maggior protagonismo nella famiglia

“Il nostro Osservatorio – sottolinea Matteo Lucchi, ceo Eumetra – mette in luce un chiaro cambiamento all’interno delle dinamiche famigliari. I papà mostrano un maggior desiderio di protagonismo, anche nelle scelte o attività di cura quotidiana dei figli”.
Sebbene l’81% dei papà consideri il lavoro come chiave per la realizzazione personale, lo studio mostra come una percentuale non altrettanto elevata ritenga il proprio ruolo nella famiglia già sufficiente a questo scopo.

Il 91% pone i figli al primo posto, l’82% si sente realizzato come genitore, ma il 61% si sente sotto pressione o stressato. Nonostante ciò, quasi la metà dei papà si assegnerebbe un voto eccellente come genitore (tra 8 e 10), con una media complessiva di 7,4. Ancora: l’82% afferma di non annoiarsi mai con i propri figli e il 74% impone regole rigorose.

Conciliare lavoro e vita privata

La questione di una maggiore conciliazione tra lavoro e genitorialità è sentita anche tra i papà, con il 39% che richiede maggiori supporti familiari e il 31% che riconosce la necessità di compromessi.

Come incentivo a un maggiore sviluppo della genitorialità tra le giovani generazioni, i papà mettono al primo posto un lavoro stabile e sicuro (24%), seguito da uno stipendio adeguato (22%), con solo il 16% che considera cruciale il sostegno economico dello Stato (tuttavia, il 52% lo giudica sufficiente).

La genitorialità di oggi tra smartphone e questioni di genere

Sulle questioni di genere, il 61% sostiene che sia giusto acquistare oggetti ‘appropriati’ per bambine e bambini, mentre l’uso di smartphone e tablet come supporto nel gestire i figli è una realtà per il 53% dei papà.
La gestione quotidiana della casa vede un impegno equo del 51% dei padri, con un 69% che condivide decisioni e responsabilità con la madre.

Per quanto riguarda gli acquisti, c’è una divisione dei compiti: alimentazione (66%), puericultura pesante (75%), giochi (78%), materiale scolastico (66%), farmaci (72%) e vacanze (75%).
Inoltre, l’81% dei papà parla o parlerà di sostenibilità con i figli, l’83% di inclusione e diversità e il 31% effettua acquisti tenendo conto della sostenibilità del prodotto.

Made in Italy: +48% di export dal 2015

Lo ha dichiarato il ministro delle Imprese e del Made in Italy Adolfo Urso durante la presentazione della giornata del Made in Italy: tra il 2015 e il 2023 le esportazioni italiane sono aumentate in valore del 48%. E ora il nostro Paese è il quinto a livello globale per le esportazioni, superando nella classifica la Corea del Sud.

Il ministro Urso ha definito i prodotti italiani “belli, buoni, ben fatti e anche sostenibili”, ribadendo la qualità italiana nei cosiddetti settori delle quattro A, ovvero, alimentare, abbigliamento, arredo e automazione.
E dal 5 al 25 aprile saranno circa 300 le iniziative organizzate in tutta Italia per celebrare la giornata del Made in Italy, giornata che si è scelto di celebrare il 15 aprile, data della nascita di Leonardo Da Vinci.

“Non un modello di produzione, ma un modello di vita”

“Il Made in Italy – ha affermato il ministro Urso – non è un modello di produzione ma un modello di vita. L’eccellenza della nostra produzione si identifica nelle quattro I che sostengono il nostro modello, che corrispondono all’Identità, la riconoscibilità dei manufatti italiani nel mondo, l’Innovazione, alla quale sono dedicate una grande quantità di risorse del PNNR, l’Istruzione e l’Internazionalizzazione”.

A proposito dell’istruzione, il ministro ha ricordato l’importanza delle competenze dei lavoratori delle imprese italiane, che spinge “chi acquista le nostre imprese a continuare a produrre nel nostro Paese”. 

In un anno migliorano output, ordini e occupazione

L’indice Pmi manifatturiero dell’Italia torna a segnalare crescita dopo un anno, con una lieve espansione sia degli ordini sia della produzione. L’indice Hcob Italy Manufacturing Purchasing Managers Index a marzo è risultato pari a 50,4, in crescita rispetto a 48,7 di febbraio.
Un risultato che conferma come per la prima volta dal marzo 2023 l’indice torni sopra la soglia dei 50 punti, quella che separa la contrazione dall’espansione dell’attività manifatturiera.

Il miglioramento dell’indice riflette, oltre ad output e ordini, questi ultimi in rialzo dopo un anno, il miglioramento nelle condizioni di occupazione, mentre un freno al Pmi arriva dagli acquisti, dal momento che le imprese stanno continuando a ricorrere alle scorte.

“Il settore manifatturiero italiano può tirare un sospiro di sollievo”

Il lieve miglioramento delle vendite totali a marzo, riferisce Ansa, deriva in larga parte dalla domanda da parte di clienti ‘domestici’, mentre la domanda dall’estero è in lieve calo.
“Il settore manifatturiero italiano può tirare un sospiro di sollievo”, ha commentato Tariq Kamal Chaudhry, economista della Hamburg Commercial Bank che elabora l’indice in collaborazione con S&P Global.

“Dopo quasi un anno di difficoltà il Pmi Hcob è uscito dalla zona di contrazione, e con un valore di 50,4 l’Italia si unisce alla Spagna come seconda, fra le quattro maggiori economie europee, nel registrare espansione – ha spiegato Tariq Kama Chaudhry -. La produzione ha visto un salto significativo rispetto ai mesi precedenti”.

Salute mentale, un problema diffuso in tutto il mondo

La salute mentale continua a essere un tema delicatissimo su scala globale. Un dato rappresentativo dell’entità del fenomeno: il 32% della popolazione mondiale segnala disturbi mentali, con un aumento di 5 punti percentuali rispetto al 2022. In Italia, sebbene la quota sia inferiore (28%), si registra un incremento di 6 punti rispetto all’anno precedente. Questi sono i risultati della quarta edizione del Mind Health Report condotta da Ipsos per AXA in 16 Paesi, incluso l’Italia.

La consapevolezza sul tema è ancora scarsa

In questo contesto, un ulteriore elemento di preoccupazione è la scarsa consapevolezza sull’argomento e soprattutto un crescente ricorso all’autodiagnosi e all’autogestione. I problemi legati al benessere mentale correlati al lavoro stanno raggiungendo livelli critici. Eppure, nella percezione generale, il lavoro non è ritenuto la principale causa di tali difficoltà.

In Italia, c’è ancora molto da fare per quanto riguarda il supporto e le soluzioni per la salute mentale sul luogo di lavoro. Per il 50% dei lavoratori, le risposte offerte in tema di salute mentale influenzano positivamente la decisione di rimanere in azienda.

Cosa accade in Italia

La preoccupazione per la salute mentale persiste sia a livello globale sia nazionale. In Italia, nel corso degli ultimi 12 mesi, il 28% dei nostri connazionali ha sperimentato una qualche forma di malessere o disturbo mentale, con un aumento del 6% rispetto all’anno precedente. L’ansia è il disturbo più comune (14%), seguita dalla depressione (12%).

Il 44% degli italiani sceglie di autogestire i disturbi relativi al benessere mentale, un trend in aumento del 7% rispetto al 2022. Tuttavia, un terzo delle persone potenzialmente sofferenti di depressione, ansia o stress non ha consultato un medico quest’anno.

Salute mentale sul luogo di lavoro

A livello globale, le difficoltà mentali sono principalmente attribuite a ragioni personali anziché professionali, ma in Italia il 76% dei lavoratori manifesta almeno un disturbo correlato al lavoro. Il disimpegno sul lavoro è uno dei segnali critici che le aziende dovrebbero prendere in considerazione.

Più della metà dei lavoratori italiani ritiene che le aziende non si preoccupino della salute mentale dei dipendenti, e un terzo è insoddisfatto delle azioni intraprese. Tra le maggiori richieste, una giornata dedicata al benessere mentale e consulti specialistici esterni, guardati con particolare interesse soprattutto dalle donne e dai giovani (18-24). Il supporto offerto in tema di salute mentale impatta comunque positivamente sulla decisione di rimanere in azienda: la pensa così il 50% degli italiani, soprattutto giovani (71% nella fascia 18-24 anni).

AI: l’Europa approva la regolamentazione. Cosa cambia?

Una decisione che fa seguito a dibattiti intensi iniziati nel 2021, culminata in una normativa che stabilisce regole stringenti per l’uso dell’Intelligenza artificiale, benché alcune delle proposte più severe siano state mitigate da compromessi dell’ultimo minuto.
Con 523 voti favorevoli l’Atto sull’Intelligenza artificiale dell’Unione Europea, l’AI Act, è stato ufficialmente adottato.

Il via libera dal Parlamento Europeo alla normativa sull’AI segna un punto di svolta per il controllo di questa tecnologia. La normativa cerca di bilanciare la promozione dell’innovazione tecnologica con la tutela dei diritti civili e la protezione dei consumatori, ponendo la UE come ‘leader’ nella regolamentazione dell’Intelligenza artificiale a livello mondiale.

No a sistemi per la sorveglianza di massa sì a restrizioni dei sistemi ‘ad alto rischio’

L’AI Act mira a proibire sistemi basati su AI per la sorveglianza pubblica di massa e impone restrizioni su sistemi ritenuti ‘ad alto rischio’ per la società, tra cui quelli applicati a infrastrutture critiche, educazione e formazione professionale, e sistemi di applicazione della legge.
La normativa è stata oggetto di dibattito non solo per le sue implicazioni all’interno dell’Unione ma anche per il suo potenziale impatto a livello globale, sollevando preoccupazioni tra le big tech negli Stati Uniti come OpenAI, Microsoft, Google e Meta.

Nonostante le critiche da parte di alcuni stati membri o figure politiche come il presidente francese Emmanuel Macron, che temono possa ostacolare l’innovazione, l’AI Act rappresenta un passo significativo verso la creazione di un quadro regolamentare equilibrato, riporta Adnkronos.

“Un modello di sviluppo che metta l’essere umano davvero al centro”

“Siamo molto soddisfatti del risultato e dell’ampia maggioranza raggiunta – commenta Brando Benifei, relatore all’Eurocamera per l’AI Act e capodelegazione del Pd al Parlamento europeo – ora bisogna concentrarsi sull’attuazione, sugli investimenti, sulla condivisione delle capacità dei supercomputer e sul lavoro con i partner internazionali, per affermare un nostro modello di sviluppo dell’AI che metta l’essere umano davvero al centro”. 

Ora spetta agli Stati membri istituire agenzie nazionali di supervisione

I sistemi considerati ad alto rischio saranno soggetti a regole severe che si applicheranno prima del loro ingresso nel mercato della UE.
Le norme generali sull’AI si applicheranno un anno dopo l’entrata in vigore, nel maggio 2025, e gli obblighi per i sistemi ad alto rischio in tre anni, sotto la supervisione delle autorità nazionali, supportate dall’ufficio creato ad hoc della Commissione europea.

Spetta ora agli Stati membri istituire agenzie nazionali di supervisione. Un portavoce della Commissione ha dichiarato a Euronews che i Paesi hanno 12 mesi di tempo per nominare gli organi di controllo.

Work-life balance e genitori al lavoro: aumentano le dimissioni 

Dall’ultimo rapporto realizzato dal Censis emerge che i lavoratori italiani (80%) esprimono il proprio disappunto riguardo il sacrificio degli interessi personali richiesto in passato dal lavoro a discapito del proprio benessere.
E secondo una ricerca pubblicata su People Management nell’ultimo anno il 46% dei genitori ha lasciato il proprio lavoro o sta prendendo in seria considerazione le dimissioni.

Un dato confermato anche in Italia, dove, stando a quanto riporta l’Ispettorato del Lavoro, sono state convalidate 61.391 dimissioni di padri e madri nel 2022 (+17,1% rispetto al 2021), la maggior parte rassegnate entro i primi tre anni dalla nascita dei propri figli, e perlopiù da giovani di età compresa tra 29-44 anni (79,4%) e donne (72,8%).

Arriva l’Help Desk Genitorialità 

La causa viene attribuita a una sempre più accentuata difficoltà nel conciliare lavoro e vita privata (63%). Inoltre, a lasciare il lavoro sono in prevalenza lavoratori in attesa del primo figlio o che hanno un solo figlio.
“I dati sottolineano l’importanza di affrontare in modo efficace le sfide legate alla genitorialità sul luogo di lavoro, promuovendo politiche e culture aziendali più inclusive e favorevoli alla famiglia”, commenta Debora Moretti, co-ceo di Zeta Service.

A questo proposito, Zeta Service annuncia l’apertura di uno sportello dedicato alla genitorialità. Si chiama Help Desk Genitorialità, e intende supportare i genitori dando risposte, in particolare, ai problemi burocratici del work-like balance. 

Smartworking al 100% per le neo mamme

Da un sondaggio al titolo ‘Maternità, Burocrazia e Tempi’, emerge che in azienda oltre la metà delle donne ha trovato difficoltà nel comprendere gli step burocratici relativi, ad esempio, alla richiesta di bonus, presentazione di documentazione, congedo obbligatorio/facoltativo. 
In particolare, 9 donne su 10 vorrebbero ricevere più informazioni, poiché i siti web istituzionali spesso sono poco comprensibili o non esaustivi. Il 40% delle intervistate richiede infatti maggiore chiarezza.

“Noi prevediamo per le mamme, lo smartworking al 100% negli ultimi mesi della gravidanza, e un mese di smartworking al 100% per i papà, oltre l’estensione del congedo di paternità a 20 giorni – spiega Moretti -. Queste iniziative, a mio parere rappresentano per le imprese, piccole o grandi che siano, scelte indispensabili”.

Cosa può fare l’azienda per supportare i genitori dipendenti? 

“Le parole chiave sono flessibilità e vicinanza – aggiunge Moretti -. L’azienda deve essere realmente interessata a comprendere le necessità delle persone, guardandole e ascoltandole nel loro complesso, in modo da introdurre benefit che possano favorire un migliore work-life balance e avere una maggiore flessibilità, sebbene sia complicato introdurre questo cambiamento di mentalità nel nostro Paese”.

Come si legge nel VI Rapporto Censis-Eudaimon sul welfare aziendale, riferisce Ansa, a oggi infatti in Italia solo il 12,2% degli occupati lavora da remoto, nonostante per più di 8 lavoratori su 10 lo smartworking permetta di conciliare meglio famiglia, vita privata e lavoro.

Moda e lusso trainano gli acquisti on line degli italiani

Dalla pandemia in poi, alcuni comportamenti di acquisto sono diventati parte della nostra quotidianità. Il primo e più importante è sicuramente l’abitudine di effettuare acquisti on line. Tanto che la quota di italiani che fa shopping online ogni settimana si è stabilizzata al 47,1%, mantenendosi invariato rispetto all’anno precedente.

In questo contesto, però, fanno capolino nuove tendenze, come l’aumento degli acquisti di seconda mano e l’adozione dei servizi “buy now, pay later”, mentre diminuisce l’importanza degli acquisti di generi alimentari e dei servizi di comparazione prezzi. Sono alcune delle informazioni contenute nel report Digital 2024, pubblicato a febbraio da We Are Social in collaborazione con Meltwater.

Il fashion è la categoria “regina” dell’e-commerce

Tra le categorie del settore dell’e-commerce, la moda registra un aumento di spesa del 25,7%, seguita dai beni di lusso con un incremento del 21,4%. Crescono rispetto l’anno precedente anche gli acquisti online di articoli per la casa (+16,3%), arredamento (+18%) ed elettronica (+11,4%).

I film e i servizi TV in streaming rimangono i contenuti digitali più acquistati, amatissimi dal 40,3% degli utenti internet tra i 16 e i 64 anni. La musica in streaming si posiziona al secondo posto (17,3%), seguita dalle app mobile al terzo (9%). Quest’anno, gli e-book (8,5%) superano i mobile game (8,4%), forse influenzati dal successo di #booktok.

Il rapporto con i brand 

I motori di ricerca si confermano la principale fonte per scoprire nuovi brand, prodotti o servizi, con il 40,8% degli utenti internet italiani che li utilizza a tale scopo. La pubblicità in TV è al secondo posto con il 36,6%, mentre le raccomandazioni di amici e familiari guidano le scelte del 30,7% del campione. In particolare, cresce l’autorevolezza della pubblicità sui social: passa infatti dalla settima alla quinta posizione in classifica, con il 25,1% degli utenti italiani che la considera fondamentale per conoscere brand o servizi. Cresce anche il numero di persone che clicca su contenuti social sponsorizzati (+6,8%, 14,1%), mentre diminuisce di 2,5% chi clicca su banner di siti web (11,5%).

I motori di ricerca mantengono la loro leadership anche nell’approfondimento della conoscenza sui brand (59,1%), seguiti dai social network, siti di confronto prezzi e recensioni. 

Aumenta la spesa per la pubblicità digitale 

La spesa per la pubblicità digitale, inclusi search e social, cresce del 9,6%, superando i 6 miliardi di dollari. Gli investimenti annuali nelle attività pubblicitarie con influencer raggiungono i 340 milioni di dollari. Questa tendenza porta la quota della spesa pubblicitaria digitale totale quasi al 5,4%, con un incremento del 3,4% rispetto all’anno scorso.

Nuova occupazione: uomini e donne la cercano in modi diversi 

Gli uomini e le donne sono diversi, anche quando si tratta di scelte professionali. Il dato emerge da un’indagine condotta dal Centro Studi di Fòrema, ente di formazione del sistema confindustriale veneto, che ha approfondito le esigenze e le aspettative di coloro che cercano lavoro o desiderano cambiarlo, evidenziando notevoli differenze tra uomini e donne.

La ricerca, che ha coinvolto oltre oltre duecento persone tra corsisti e disoccupati, fornisce un quadro dettagliato del tema “Cosa ti serve per lavorare?” in un periodo caratterizzato dalle rivoluzioni green e digitali.

Chi pensa alla busta paga, chi alla soddisfazione personale

Gli uomini risultano più orientati alla busta paga, con il 51% che pone maggiore enfasi sulla sicurezza economica, rispetto al 45% delle donne. Le signore, invece, manifestano interessi più ampi e articolati: considerano infatti aspetti come la crescita professionale e umana (14% vs 11%), l’autorealizzazione (12% vs 10%), e la gestione delle competenze (8% vs 5%). Questo riflesso dei ruoli tradizionali di “breadwinner” evidenzia le diverse prospettive di uomini e donne anche sul lavoro.

La formazione è una priorità per le lavoratrici

Per quanto riguarda la formazione, le donne vi ripongono una maggiore fiducia, attribuendo maggiore importanza ai percorsi formativi rispetto agli uomini (55% vs 38%). Le competenze digitali risultano fondamentali per entrambi i generi, con il 56% delle donne e il 50% degli uomini che le ritengono cruciali.

La formazione tecnica è anch’essa ritenuta importante dal 47% degli intervistati, mentre il tirocinio formativo, fondamentale per il 73% del campione, risulta essere una metodologia apprezzata per sviluppare competenze direttamente in azienda.

I giovani puntano sulle skills tecniche e tecnologiche

Per i giovani, la formazione tecnica è prioritaria nel 75% dei casi, mentre le digital skills sono essenziali per tutte le fasce d’età. Inoltre, il tirocinio formativo gode del massimo favore da parte dei giovani (58%). Questo strumento rimane gradito anche dopo i 30 anni, con una percentuale del 42% fra gli intervistati che lo apprezza.

Le donne mostrano un grande interesse nell’accesso alle informazioni sul mercato del lavoro (62%), mentre i giovani manifestano un forte appeal nei confronti dei bonus (67%) come incentivo alla partecipazione alle attività. L’occupazione influisce sulla percezione degli strumenti proposti: il 50% di chi cerca lavoro lavoro li ritiene cruciali, contro il 34% di chi è già occupato. 

Per concludere

In conclusione, l’indagine offre uno sguardo approfondito sulla complessità delle motivazioni e delle aspettative legate al lavoro, evidenziando la necessità di rispondere alle esigenze differenziate di uomini, donne e giovani nel contesto che stiamo vivendo.

Vivibilità in Europa: l’Italia si posiziona male in classifica  

Costi della vita e delle utenze penalizzano i “voti” relativi alla vivibilità del nostro Paese, che risulta tra i peggiori in Europa. Nonostante un leggero calo dell’inflazione e dei costi energetici rispetto ai massimi storici degli ultimi anni, l’attenzione sulla problematica del prezzo degli affitti e dell’energia elettrica persiste in Italia e nel resto d’Europa. La banca online N26 ha condotto uno studio sull’Indice di Vivibilità, esaminando i dati relativi a spese per l’abitazione ed energetiche in ogni paese europeo.

L’obiettivo è identificare le nazioni che offrono la migliore qualità di vita, considerando aumenti salariali, densità di popolazione e il livello di felicità dei residenti.

L’Italia: il problema degli stipendi troppo bassi

Secondo i risultati dello studio, l’Italia si posiziona al penultimo posto per vivibilità, preceduta solo dal Regno Unito. Il costo degli affitti e dell’energia elettrica impatta notevolmente sugli stipendi mensili degli italiani, tra i più bassi in Europa. Con oltre il 52% del salario destinato all’affitto, la situazione economica italiana evidenzia un problema enorme. Insomma, il nostro della vita è troppo alto e difficilmente sostenibile.

La Danimarca in testa alla classifica

Al contrario, la Danimarca si distingue come il miglior paese europeo in cui vivere, con un impatto meno pesante sugli stipendi in termini di affitti ed energia elettrica. Con rispettivamente il 21% e il 18% del salario destinato agli affitti, Svizzera e Belgio si collocano al secondo e terzo posto nella classifica. In questi Paesi è evidente una situazione più favorevole per quanto riguarda la proporzionalità tra reddito e costi abitativi.

I Paesi Bassi al terzultimo posto

Sorprendentemente, i Paesi Bassi occupano il terzultimo posto nella classifica N26, con circa il 37% del salario destinato a coprire il costo dell’affitto. Questa percentuale più elevata rispetto ai paesi in testa riflette un’importante sfida economica nel bilanciare la propria economia interna.

In conclusione, la vivibilità in Europa è fortemente influenzata dal costo degli affitti e da quelli dell’energia elettrica. Mentre Danimarca, Svizzera e Belgio offrono una qualità della vita superiore, l’Italia si trova ad affrontare tensioni importanti, evidenziate dalla quota significativa del salario destinata agli affitti. Un’attenta riflessione sulle politiche economiche e abitative potrebbe contribuire a migliorare la situazione e rendere il vivere in Italia più accessibile ed equilibrato.

Percezione e realtà: che divario c’è e come le vivono i cittadini? 

Il divario tra la percezione e la realtà dei fatti è un fenomeno diffuso, come dimostra l’indagine Ipsos condotta su un campione 10.000 persone residenti in 10 Paesi, tra cui l’Italia. , L’obiettivo dell’analisi è testare le convinzioni delle persone su questioni sociali, politiche ed economiche confrontandole con i dati reali. le sorprese, ovviamente, non mancano.

Immigrazione, cultura, religione, criminalità : visioni distorte  

La percezione dell’immigrazione è distorta in tutti i Paesi esaminati. La media del divario tra percezione e realtà è del 24% rispetto al 12%, un fenomeno riscontrato anche in Italia (21% vs. 11%). Le percezioni errate riguardo alla presenza di musulmani sono evidenti. Mentre la cifra reale è del 3%, la percezione nei 9 paesi a maggioranza non musulmana è superiore al 17%. In Italia, la convinzione che il 19% sia musulmano contrasta con la realtà, dove sole il 4,8% pratica questa religione.

Anche per quanto concerne la criminalità c’è molto da dire. La maggioranza degli intervistati ritiene erroneamente che il tasso di omicidi sia aumentato dal 2000, sebbene sia diminuito in tutto il mondo, tranne negli Stati Uniti. In Italia, il 55% crede che gli omicidi siano aumentati negli ultimi vent’anni.

Disuguaglianza economica: un fenomeno sovrastimato

La percezione della disuguaglianza economica è sovrastimata. La quota di ricchezza detenuta dall’1% delle famiglie più abbienti è stimata al 36%, ma il dato reale è del 13%. Anche in Italia, il divario tra percezione e realtà è evidente (36% vs. 14%).

Teorie del complotto

Le credenze irrazionali coinvolgono oltre un quarto del campione nei dieci Paesi. In Italia, il 24% crede nei fantasmi, il 17% nella stregoneria e il 16% nella chiaroveggenza, percentuali inferiori alla media degli altri stati. Quasi la metà delle persone è sospettosa verso gli scienziati, preferendo affidarsi all’esperienza personale. In Italia, questa percentuale si attesta al 42%.

Alcune teorie del complotto, come un presunto progetto di sostituzione della popolazione con immigrati (24% in Italia), trovano riscontro tra il 15% e il 25% degli intervistati nei dieci Paesi. La diffidenza verso il governo ucraino (27% in Italia) e le teorie sulla falsità delle missioni spaziali americane (20% in Italia) sono altrettanto diffuse.

L’importanza di avere informazioni corrette

In sintesi, l’indagine evidenzia un divario significativo tra percezione e realtà in diverse sfere della società, sottolineando l’importanza di informazioni corrette e consapevolezza pubblica.

Dimissioni del personale: alle aziende possono costare 2 milioni di euro all’anno

È quanto emerge dal terzo Outlook dell’Osservatorio sulla formazione continua curato da OfCourseMe. Tra le spese legate all’onorario di un’agenzia di head hunting e quelle relative a un periodo di mancata produttività il costo che deve affrontare un’azienda di medio-grande dimensione (500 dipendenti) quando perde talenti (e deve assumerne di nuovi) è di circa 2 milioni di euro l’anno.

“Supponiamo di avere un’impresa di 500 persone, con una perdita di figure qualificate, churn, dell’8% annua – spiega Davide Conforti, Presidente dell’Osservatorio e Founder di OfCourseMe -. Abbiamo calcolato che i costi affrontati, in termini di spese per le agenzie di head hunting e mancata produttività, e tenendo conto del tempo medio per l’assunzione di una nuova persona, pari a 2,5 mesi, è di 2 milioni di euro in un anno”.

Come affrontare la “piaga” della perdita di talenti? La risposta è nell’upskilling

La domanda che si è posto l’Osservatorio è la seguente: come possono le imprese affrontare la ‘piaga’ della perdita di persone chiave, il conseguente vuoto di competenze, e al contempo, cercare di contenere i costi?

“La risposta risiede nell’upskilling – aggiunge Davide Conforti -, una strategia vincente che non solo mitiga i rischi, ma contribuisce attivamente a migliorare il business”.
Ma quanto è effettivamente tangibile l’impatto della formazione? E, soprattutto, è possibile calcolarne il ROI?

La formazione continua non è solo una spesa necessaria, ma un investimento strategico

“Grazie a iniziative di sviluppo professionale è possibile mitigare il churn di almeno il 10% – sottolinea Conforti -. Questo equivarrebbe a un risparmio di 200 mila euro”.
Confrontando il costo medio di un piano di upskilling su una popolazione di circa mille persone con i benefici derivanti dalla riduzione del churn i risultati calcolati dall’Osservatorio sono sorprendenti. Il ROI dell’upskilling si attesta infatti tra 3 e 6 volte l’investimento iniziale. Ciò dimostra che la formazione continua non è solo una spesa necessaria, ma un investimento strategico che si ripaga ampiamente da sé già nel corso del primo anno.

Ma occorre valutare puntualmente competenze critiche e skill gap su cui intervenire

“L’effetto positivo della formazione richiede, però, un approccio strategico da valutare puntualmente in relazione alle prospettive dell’impresa – puntualizza ancora il manager -. È necessario avere chiaro quali siano le competenze critiche e gli skill gap su cui intervenire. Da qui, avviare percorsi di upskilling personalizzati, in grado di coinvolgere le singole persone”.