Riduco, rinvio, rinuncio e risparmio: le 4 R che guidano il consumatore non food

Quali sono le leve che muovono gli utenti italiani verso un acquisto non food? Dopo un ottimo 2021,  che ha visto tutti i 13 comparti merceologici analizzati dall’Osservatorio Non Food 2022 di GS1 Italy1 aumentare le vendite annue (+12,0%) e superato i valori pre-pandemia (+2,2% nel quinquennio) arrivando a quota 104,7 miliardi di euro, il 2022 si presenta con una situazione molto differente. Dato lo scenario attuale, l’obiettivo del macrocomparto Non Food è quello di garantire ai consumatori l’accessibilità ai prodotti non alimentari – dai cosmetici agli elettrodomestici, dai mobili agli smartphone, dai casalinghi ai capi di abbigliamento, dalle attrezzature sportive ai televisori – quelli che, per loro natura, non sono acquisti strettamente indispensabili e che, quindi, sono i primi a essere messi in discussione quando si ha (o si teme di avere in prospettiva) una minore capacità di spesa. 

La ricerca dell’affare

Quali sono le strategie adottate dai nostri connazionali per fare acquisti in ambito non alimentare, ovviamente cercando sempre le migliori condizioni?. In primis, partendo dal confronto sui prezzi praticati sia nei negozi fisici che nei siti e nelle piattaforme online, rivela l’Osservatorio Non Food 2022 di GS1 Italy. Tra il 35 e il 45% degli shopper si informa del prezzo direttamente in negozio davanti allo scaffale e circa il 20% si informa con quello esposto in vetrina (in particolare per abbigliamento, profumeria, ottica e arredamento). Allo stesso tempo, c’è una significativa quota di consumatori che si informa dei prezzi attraverso i canali online, ad esempio sui siti specializzati in e-commerce (come Amazon) soprattutto per elettronica e giocattoli (circa il 45% dei casi), sugli e-shop delle catene specializzate e sui motori di ricerca (come Google), in particolare per elettrodomestici, elettronica e articoli per lo sport con circa il 30% dei casi. La convenienza è il plus che porta a scegliere i siti di e-commerce, a partire dai pure player dell’online. Circa la metà degli shopper cerca su internet i prezzi più bassi e dal 30% al 40%, a seconda dei comparti, viene attratto dalle offerte promozionali.
Nella rete fisica il livello dei prezzi e, soprattutto, di quelli in volantino è in quasi tutte le merceologie il motivo principale che fa scegliere di acquistare negli ipermercati o nei supermercati di grandi dimensioni, in particolare alcune merceologie (come i libri best seller, la cartoleria e l’edutainment in genere) e in alcuni periodi dell’anno, come Natale. Le offerte promozionali sono determinanti anche per spingere gli acquisti nei negozi specializzati e nei discount.

Il ruolo dei bonus dello Stato

Un’altra strada individuata dagli italiani per comprare risparmiando è approfittare delle detrazioni fiscali e dei bonus concessi dallo Stato. L’Osservatorio Non Food 2022 di GS1 Italy ne ha rilevato gli effetti in diversi settori. Gli incentivi legati alle ristrutturazioni edilizie hanno impattato sulle vendite di grandi elettrodomestici (+18,8% i bianchi, +35,9% i bruni), di mobili (+17,0%), di bricolage (+6,8%) e di edilizia fai-da-te (+5,7%). Il Bonus Cultura 18app ha influito sulla spesa per i supporti musicali (+24,0%) e per i libri non scolastici (+10,4%), mentre il Bonus Vista su quella per prodotti di ottica (+16,1%).

Assoinfluencer: arriva il primo sindacato di influencer e content creator italiani

Influencer e content creator rappresentano una nuova categoria imprenditoriale in ascesa, e capace di attrarre investimenti, ma ancora poco tutelata sul piano legale. Si tratta di un esercito di 350mila professionisti solo in Italia, per un valore di mercato di 280 milioni di euro nel 2021 (+15% rispetto al 2020), e 14 miliardi a livello globale. Assoinfluencer, nata da un’idea degli avvocati Jacopo Ierussi e Valentina Salonia, e inserita nell’elenco delle Associazioni Professionali del Ministero dello Sviluppo Economico, è la prima associazione italiana di categoria che ha l’obiettivo di supportare e regolamentare proprio le figure professionali di influencer e content creator italiani.

Una nuova figura professionale in continua evoluzione

L’associazione, che ha mosso i primi passi a livello istituzionale nel 2018, è il primo sindacato che rappresenta le diverse figure professionali riconoscibili come influencer e content creator: youtuber, podcaster, streamer, instagrammer e cyber atleti.
“Quella dell’influencer è una figura nuova e che cambia tanto rapidamente quanto il mondo dei media – spiega Jacopo Ierussi, founder e presidente di Assoinfluencer -. I creator possono essere artisti e imprenditori, atleti e divulgatori, ma sono sempre professionisti, capaci di produrre valore attraverso competenze e strumenti specifici. E in quanto professionisti, in un mercato ancora non regolato, ciò che fino a oggi è mancato è esattamente una realtà che ne tutelasse diritti e interessi: Assoinfluencer è nata proprio per rispondere a questa esigenza”.

Marketing e comunicazione nella digital economy

Con la nascita di Assoinfluencer per la prima volta i creator italiani sono stati rappresentati da un’associazione sindacale, a testimonianza del crescente riconoscimento della loro professionalità e del loro ruolo nel mondo della comunicazione e del marketing. Questo ambito della digital economy non solo non è ancora attenzionato da una legislazione specifica sia sul piano fiscale sia dei compensi, ma spesso vede i suoi attori scontare un quadro giuridico poco chiaro e trasparente, nella cui costruzione l’associazione mira a coinvolgerli. Networking, tutela legale e fiscale, formazione e divulgazione, difesa dei compensi e rappresentanza istituzionale: queste le principali aree di interesse del sindacato, che ha già messo a segno alcune vittorie.

L’obiettivo è arrivare a un Codice Ateco dedicato alla categoria

L’associazione si è impegnata per l’approvazione dell’emendamento che ha portato il Governo a riconoscere la figura del creatore di contenuti digitali. Di fatto, il primo passo delle istituzioni per lo sviluppo della Creator Economy italiana, riferisce Adnkronos. Non solo, Assoinfluencer ha anche promosso la categoria attraverso Confcommercio Professioni, partecipando a tavoli di lavoro come quello interistituzionale con l’Istat per la revisione della Classificazione Nace, la classificazione statistica delle attività economiche nella Comunità europea.
L’obiettivo è arrivare a un Codice Ateco dedicato alla categoria, intervenendo nella consultazione in materia di concorrenza ai contratti collettivi, e facendo divulgazione giuridica e socio-economica sulla creator economy.

Shopping e caro bollette: il 39% degli italiani “taglia” abiti e scarpe 

In pieno autunno ‘caldo’ dei prezzi il 39% degli italiani ha intenzione di ridurre gli acquisti di prodotti non certo voluttuari, ma sicuramente meno necessari del cibo. È quanto emerge da un sondaggio anticipato all’Adnkronos da Confesercenti. Di fatto, il caro bollette si sta abbattendo anche sulle vendite di vestiti, cappotti, borse e scarpe.
“Un calo che già si avverte nelle vendite dei negozi – afferma Benny Campobasso, presidente di Fismo – anche se per ora, ma siamo a inizio stagione, è leggero. Storicamente il mese di ottobre è tranquillo, ma se con il freddo non ci sarà una reazione sugli acquisti allora ci sarà da preoccuparsi”. Tanto che, secondo un altro sondaggio di Fismo, 11 mila negozi già pensano di chiudere l’attività.

Il 10% degli imprenditori è pronto a chiudere la propria attività

“Il 10% degli imprenditori si dichiara pronto a chiudere la propria attività di fronte agli aumenti di energia elettrica – aggiunge Benny Campobasso -. Una fetta considerevole pari a circa 11 mila piccole attività commerciali di abbigliamento, accessori e calzature”.
Una forte preoccupazione avvertita anche in casa Confcommercio. “Abbiamo i magazzini pieni di collezioni bellissime acquistate tra dicembre 2021 e gennaio 2022 – sottolinea Giulio Felloni, presidente di Federmoda Italia Confcommercio -, capi anche costosi che abbiamo comprato con aspettative ottimistiche sulla fine della pandemia, ma ora la situazione di grande difficoltà non può che preoccuparci”.

La frenata economica sta condizionando l’acquisto di abbigliamento e accessori

“L’aumento dei costi in generale e delle bollette fa sì che i consumatori siano prudenti – aggiunge Giulio Felloni – e anche se c’è una gran voglia di ritorno alla normalità, e soprattutto da parte femminile di comprare qualcosa, la frenata economica sta condizionando l’appeal di acquisti di abbigliamento e accessori”. In base a un sondaggio flash che Federmoda Italia ha svolto dal 30 settembre al 10 ottobre tra i commercianti, emerge inoltre che “le vendite sono leggermente inferiori o stabili, ma sta di fatto che molti negozi stanno pensando di chiudere anche per l’enorme aumento dei costi”.

Più a rischio i piccoli centri dove non c’è lo shopping tourist

“Ci attendiamo segnali e progetti costruttivi dal governo – sostiene ancora Felloni – lavoreremo sulla filiera dal produttore al consumatore ma pensiamo di avere una interazione con le altre associazioni: Cna, Confartigianato, Confindustria, Confesercenti per fare un ragionamento insieme e cercare di risolvere il problema della moda, un problema latente per impedire che i negozi chiudano, e poi non riaprano più. Il fenomeno riguarda alcune città, e alcuni comuni più piccoli e poco frequentati, dove non c’è lo shopping tourist. E poi – spiega Felloni – la clientela deve capire che se qualcuno compra un vestito online alimenta una concorrenza sleale, sul web infatti i costi non sono comparabili con quelli che abbiamo noi”.

Italiani sempre più cashless: ecco cosa succede

Addio contante, benvenuti pagamenti cashless. Anche gli italiani, ogni anno di più, si affidano alle carte di credito e ai sistemi digitali per saldare i loro acquisti. E, tra i “motori” di questo importante passaggio, c’è sicuramente lo sviluppo dell’e-commerce che ha portato molti nostri connazionali a cambiare abitudini in fatto di pagamenti. La fotografia dei nuovi modi di pagare nel nostro Paese e delle loro evoluzione è il focus del ventesimo Osservatorio Carte di Credito e Digital Payments curato da Assofin, Ipsos e Nomisma con il contributo di CRIF. Dall’analisi emerge che nel 2021 il numero dei pagamenti effettuati con strumenti diversi dal contante a livello nazionale è cresciuto del +24%, incremento che sale a +29% se si considerano i pagamenti su POS con le sole carte di debito. Appare evidente che la preferenza all’uso del contante si sta progressivamente riducendo e il segmento dei cash lover risulta in ulteriore calo tra i decisori rispetto al 2021.

Aumentano le transazioni on line 

La ventesima edizione dell’Osservatorio Carte di Credito e Digital Payments conferma un’ulteriore evoluzione del mercato verso l’uso di strumenti alternativi al contante e un maggiore utilizzo di strumenti innovativi. “A fronte della ripresa dei consumi, il numero delle operazioni e gli importi complessivi transati con le carte di debito hanno registrato uno sviluppo significativo. Nel contesto di crescita dell’eCommerce, è proseguito l’incremento dell’incidenza delle transazioni online, che nei primi 6 mesi del 2022 arrivano a costituire il 24% delle operazioni complessive via carta opzione/rateale” si legge nel rapporto.

L’analisi della domanda

L’analisi della domanda evidenzia un incremento della frequenza d’uso e degli heavy user dei pagamenti digitali. Oltre alla crescita della frequenza d’uso mensile, nei primi sei mesi del 2022 cresce anche la spesa media mensile dichiarata con carta, che si attesta a 405 euro rispetto ai 397 euro del 2021. Anche l’utilizzo della carta di debito registra significative crescite: la media sale a 4.6 volte al mese rispetto al 4.2 del 2021. La spesa media mensile dichiarata rimane elevata e superiore a 400 euro. Il maggior ricorso ai pagamenti con carte di credito anche per modeste spese è stato facilitato, oltre che dalle iniziative di Cashback di Stato, anche dalla funzionalità contactless. Chi utilizza la funzionalità oltre 4 volte il mese è in continuo aumento e il 77% dei titolari carte contactless ha utilizzato questa modalità di pagamento più di due volte il mese, rispetto al 70% di inizio 2021. Dalle analisi condotte sui consumatori, emerge però il bisogno di maggiori rassicurazioni in tema di sicurezza. Raddoppia infatti, rispetto al 2021, l’abbandono della carta a seguito di esperienze di frodi o clonazioni, e cresce, tra i driver di sottoscrizione della carta di credito, la rilevanza dell’affidabilità del brand. Prosegue invece la diffusione della conoscenza dei pagamenti da smartphone e app, e la quota di user si è ulteriormente ampliata nei primi 6 mesi del 2022 rispetto a gennaio e agli anni precedenti. Il bacino potenziale degli m-payment è in costante e progressiva crescita e, considerando l’attuale quota di user, le potenzialità di ulteriore espansione sono elevate. 

Spreco alimentare: italiani consapevoli, ma non abbastanza

Babaco Market ha presentato i dati di una ricerca commissionata a BVA-Doxa sulle attitudini degli italiani verso lo spreco di cibo. Di fatto, il 66% consuma frutta fresca tutti i giorni, con una forte consapevolezza in merito al tema dello spreco alimentare globale. Il 96%, infatti, dichiara di averne una chiara percezione, ma solo il 43% ne conosce l’entità. L’esistenza di un divario tra conoscenza del fenomeno e comprensione della sua gravità è ulteriormente testimoniata dal fatto che un quarto degli italiani non è a conoscenza dell’impatto del fenomeno sul cambiamento climatico. Secondo le stime della FAO, a livello mondiale viene infatti perso o sprecato circa il 30% del cibo all’anno, causando il 10% delle emissioni di gas serra.

Abitudini di consumo e acquisto di frutta e verdura

Quanto ai criteri d’acquisto di frutta e verdura, la provenienza locale/italiana è il driver fondamentale per il 37%, seguito da prezzo conveniente (22%) e buon gusto (20%). Se si analizzano più da vicino le abitudini nei confronti del consumo di prodotti ortofrutticoli, il 46% del campione dichiara di sforzarsi di mangiare spesso frutta e verdura perché consapevole dei benefici per la salute. I dati sui luoghi di acquisto sottolineano, invece, un’apertura green verso canali meno tradizionali e più sostenibili. Infatti, circa il 19% usufruisce di siti/app specializzate nella vendita di prodotti ortofrutticoli almeno una volta al mese.

I buoni propositi si scontrano con la realtà

L’obiettivo dell’ONU di dimezzare gli sprechi alimentari entro il 2030 è stato giudicato importante per quasi tutta la popolazione (97%), e l’88% lo reputa fondamentale. I buoni propositi si scontrano però con la realtà: solo 4 su 10 considerano certamente realizzabile l’obiettivo ONU e 1 su 5 crede che non sarà raggiunto.
In ambiente domestico, quasi un quarto ammette di sprecare cibo per scarsa attenzione, e nonostante la volontà generale sia quella di non buttare quasi mai nulla, il 57% ha riscontrato almeno un episodio di spreco alimentare domestico nell’ultimo mese. E a finire più spesso nel cestino sono verdura (47%), frutta (41%), pane fresco (29%), latticini (24%), cipolle, aglio e tuberi (22%).

Le azioni anti-spreco

Tra le maggiori cause dello spreco, la scarsa attenzione a consumare alimenti prima che scadano/si deteriorino (54%), una conservazione poco adeguata dei prodotti nei punti vendita (33%), l’acquisto di troppi alimenti (21%) o in formati troppo grandi (19%), e la tendenza a cucinare cibo in eccesso (9%). Al contrario, tra le principali azioni anti-spreco, il porzionamento e il congelamento del cibo (46%), dare priorità ai cibi prossimi alla scadenza (38%), acquistare prodotti durevoli/a lunga conservazione (37%), acquistare formati più piccoli (30%), l’adozione di un menu settimanale (25%) e l’acquisto su siti specializzati vs anti-spreco (8%). Positivo anche l’interesse per l’acquisto online di frutta e verdura esteticamente imperfetta, e in grado di supportare il Made in Italy: il 50% è molto attratto da questa possibilità.

Italia in ritardo su formazione digitale: solo il 46% ha competenza di base

L’ingresso delle tecnologie digitali nei comparti manifatturiero e agricolo a livello mondiale ha avviato una vera e propria rivoluzione industriale. Una rivoluzione che presenta numerose opportunità per l’Italia e le sue aziende, ma anche tante sfide a cui istituzioni, aziende e stakeholder devono rispondere in maniera coordinata. Su tutte, la sfida numero 1 è quella delle competenze, l’elemento necessario per essere competitivi in mercati sempre più dinamici e la leva che garantisce una maggiore inclusione economico e sociale È questo il principio che ha guidato la realizzazione dello Studio Verso un New Deal delle Competenze in ambito agricolo e industriale, elaborato da The European House – Ambrosetti, in collaborazione con Philip Morris Italia.

Al 24° posto nell’indice Desi della Commissione Europea 

L’obiettivo dello studio è quello di definire gli elementi per un New Deal delle competenze legate alle tecnologie 4.0. Di fatto, l’Italia risulta in ritardo sulle competenze digitali, sia per quanto riguarda la formazione in ingresso sia per quanto riguarda la formazione permanente. Il Paese risulta 24° su 27 nell’indice Digital Economy and Society Index (Desi) della Commissione Europea, con una performance particolarmente deludente sul fronte del capitale umano digitale.
Il nostro ritardo digitale è particolarmente forte nelle competenze, dove l’Italia si posiziona terzultima in Europa con appena il 46% della popolazione adulta con competenze digitali di base. Il ritardo è confermato anche da altri indicatori chiave, tra cui il numero di laureati in corsi di laurea Ict e discipline Stem, nonché da un importante divario di genere: solo il 17% dei professionisti Ict è donna.

Competenze 4.0: aziende agricole più soddisfatte delle manifatturiere

Manifattura e agricoltura intelligente sono una direttrice imprescindibile per il successo del Paese: il 97% delle aziende manifatturiere e il 98% di quelle agricole ha implementato progetti di digitalizzazione dei processi produttivi. Sulle competenze 4.0, le aziende agricole risultano più soddisfatte di quelle manifatturiere per il livello di competenze sviluppate dal sistema scolastico e per l’importanza della formazione on-the-job.
Il 54% delle aziende agricole è infatti soddisfatto delle competenze dei laureati e il 48% di quelle dei diplomati. Molto diversi, invece, i risultati in ambito manifatturiero, dove appena il 26% è soddisfatto delle competenze dei diplomati e il 40% di quelle dei laureati.

Come ridurre il gap con i partner internazionali?

L’Italia inoltre registra un gap significativo con i partner internazionali rispetto alla formazione tecnica post-scuola e quella continua, riporta Adnkronos. Il numero di iscritti al sistema italiano degli Its dovrebbe infatti crescere 40 volte per essere al passo con quello tedesco. Ma l’Italia risulta particolarmente debole anche rispetto alla formazione continua, elemento chiave per mantenere alta la competitività. Le priorità su cui investire per l’agricoltura intelligente risultano quindi le competenze su sostenibilità, digitale, comunicazione e competenze tecniche avanzate. Per la manifattura sono invece prioritarie le competenze Ict avanzate, Ai e Machine learning, Data Science e Project management, senza trascurare le competenze soft, quali la multidisciplinarità e l’imprenditorialità.

Caro carburanti: preoccupazione per il bilancio familiare

Il Centro Studi di AutoScout24 ha indagato il sentiment degli automobilisti e l’impatto dell’aumento dei prezzi sulle abitudini di utilizzo dell’auto. Il primo aspetto che emerge è la conferma del ruolo centrale dell’auto, utilizzata dal 93% degli italiani per i propri spostamenti dovuti a esigenze familiari (65%) o per il tragitto casa-lavoro. L’86% dei consumatori è molto o abbastanza preoccupata per l’aumento dei prezzi dei carburanti, soprattutto per l’incidenza sul bilancio familiare, e oltre la metà ritiene l’ultimo provvedimento del Governo insufficiente. Il 73% degli italiani usa infatti l’auto più di 5 giorni a settimana, il 69% percorre più di 10mila chilometri all’anno, quasi sei su dieci spendono in media tra i 100 e i 300 euro al mese di carburante, e il 15% supera i 300 euro.

Le abitudini degli automobilisti sono cambiate?

Al momento questa situazione ha avuto un impatto sulle abitudini di utilizzo dell’auto solo sul 37% del campione, ma in futuro potrebbe aumentare (63%) se non verranno presi provvedimenti e i costi dovessero salire ulteriormente. Per ora il 38% cerca di ridurre l’uso di auto benzina/diesel per il tempo libero, ma il vero cambiamento riguarda l’adozione di comportamenti virtuosi, come un diverso approccio alla guida e maggiore attenzione al risparmio. Circa un terzo, infatti, sceglie il distributore in base al prezzo più economico e il 27% tende a fare rifornimento esclusivamente al self service. Il 29% guida in modo ‘soft’ per ridurre i consumi, e un quinto monitora attentamente le spese mensili. Il 16% ha poi iniziato a usare app dedicate o il web per individuare le stazioni più economiche.

E sul fronte vendite?

Solo il 16% ha deciso di non acquistare più un’auto a causa del caro carburanti, mentre tra chi ha confermato l’intenzione all’acquisto l’aumento dei prezzi non ha influito nella scelta del tipo di alimentazione (74%). Quasi due su dieci si stanno spostando da vetture ‘tradizionali’ verso vetture che consumino meno, e il 9% da vetture tradizionali a ibride/elettriche. Le elettriche ‘pure’ rappresentano una quota minima: gli italiani dichiarano di non voler acquistarle principalmente a causa della scarsa autonomia delle batterie (39%) e per il costo elevato (24%).

Capitolo viaggi

Sui viaggi il caro carburanti ha avuto sicuramente un impatto: il 22% dei rispondenti aveva intenzione di andare in vacanza, ma ha cambiato idea proprio per l’aumento del costo della benzina.
Eppure, nella scelta del mezzo per i viaggi gli italiani non hanno dubbi. L’auto è il mezzo preferito (88%), per la possibilità di partire quando si vuole (83%), e per la libertà e la flessibilità che consente (33%). Ma escludendo i fedelissimi (30%), che non rinuncerebbero mai alla comodità dell’auto, oltre la metà del campione in caso di aumenti userà l’auto solo se non avrà alternative, e il 18% valuterà attentamente mezzi alternativi scegliendo il più economico.

Le imprese estere in Italia generano 1/5 del fatturato industria e servizi

Sono 15.779 le imprese a controllo estero in Italia. Ma se corrispondono solo allo 0,4% del totale delle imprese residenti, rappresentano un driver fondamentale di crescita del sistema produttivo e dell’economia del nostro Paese. Generano infatti da sole il 19,3% del fatturato nazionale del settore dell’industria e dei servizi, pari a 624 miliardi di euro. E nel decennio 2009-19 il numero degli occupati delle multinazionali estere è cresciuto del 23,6% (+289mila addetti), raggiungendo 1,5 milioni di dipendenti, l’8,7% del totale degli occupati delle imprese a livello nazionale. Lo rileva il report Le imprese estere in Italia e i nuovi paradigmi della competitività, dell’Osservatorio Imprese Estere, nato per iniziativa dell’Advisory Board Investitori Esteri (Abie) di Confindustria.

Quasi il 70% di incremento del valore aggiunto

Sempre nel periodo 2009-19, le imprese estere hanno registrato un incremento del valore aggiunto di quasi il 70%, passando dai 79 miliardi di euro del 2009 ai 134 miliardi di euro del 2019 (+55 miliardi), con una crescita anche della quota sul totale del Paese, passata dal 12,6% al 16,3%. Significa che le imprese estere hanno contributo quasi al 30% dell’incremento del valore aggiunto nel decennio considerato. Altrettanto rilevante anche l’apporto di queste imprese agli scambi commerciali con l’estero, toccando quasi un terzo (32%) delle esportazioni, e oltre il 46% delle importazioni realizzate dal complesso delle imprese residenti in Italia.

Una significativa propensione a investire e innovare

Le multinazionali a capitale estero si distinguono poi per una significativa propensione a investire nel Paese e a innovare, fornendo un importante impulso al settore Ricerca & Sviluppo, grazie all’investimento complessivo di 4,3 miliardi di euro nel 2019, pari al 26% del totale della spesa per la ricerca privata realizzata in Italia.
Le imprese estere operano prevalentemente in settori con tecnologia più elevata e partecipano al trasferimento tecnologico da e verso le imprese domestiche, che sono incentivate all’introduzione di nuovi processi produttivi e al miglioramento delle competenze. Inoltre, spesso assumono il ruolo di lead firm anche sui segmenti della filiera produttiva non direttamente integrati all’interno del perimetro societario. Le maggiori dimensioni e l’appartenenza a Gruppi con sedi in diversi Paesi non solo rendono le multinazionali complementari rispetto al tessuto industriale italiano, ma favoriscono l’internazionalizzazione del sistema produttivo del Paese.

Forte sensibilità ai temi della sostenibilità ambientale

L’organizzazione manageriale tipica delle multinazionali, riporta Adnkronos, è un fattore particolarmente rilevante ai fini di una migliore capacità di gestione di investimenti complessi. Non sorprende pertanto se grazie al loro assetto organizzativo e alla loro presenza internazionale, le multinazionali si contraddistinguano anche per una forte sensibilità ai temi della sostenibilità ambientale. Questi elementi, uniti a una naturale disposizione a flessibilità e innovazione, rendono le imprese a controllo estero resilienti di fronte alle sfide di oggi e del futuro: dalla riorganizzazione delle modalità lavorative fino alla transizione ecologica e digitale.

Il 41% degli italiani vuole passare meno tempo online

Molti italiani vorrebbero ridurre il tempo trascorso online. Rispetto alla media globale (33%, il 41% degli italiani si dice infatti pronto a passare meno tempo connesso a Internet. Questo, nonostante al contempo aumenti la domanda di connettività, contenuti tv e streaming. Uno dei motivi è rilevabile nel temuto aumento dei prezzi degli abbonamenti mensili ai servizi di connettività (lo dichiara il 63% degli italiani), mentre il 44% teme di pagare troppo per contenuti che non guarda. È quanto emerge dall’EY Decoding the digital home study, ricerca condotta su 2.500 famiglie in Italia e più di 20.000 a livello globale. “Il tempo trascorso online si sta stabilizzando se non addirittura riducendo, a fronte di un aumento degli standard qualitativi richiesti dagli utenti in termini di servizi e contenuti”, commenta Irene Pipola, Italy TMT Leader di EY.

Per sei su dieci il prezzo è il fattore primario

Per sei italiani su dieci, il prezzo è il fattore primario nella scelta di un servizio in streaming. Seguono la specificità del contenuto (41%) e l’ampiezza dell’offerta (38%). In attesa di questa maturazione qualitativa, a oggi il prezzo resta l’elemento chiave. E per battere la concorrenza, il trend è chiaro: si applicano sconti e si accorpano i servizi in pacchetti. La propensione all’acquisto dei cosiddetti bundle sta crescendo in Italia a un ritmo più sostenuto rispetto al 2021 (87% contro il 74%). Se l’attenzione alla convenienza è una costante (il 53% delle famiglie è interessato agli sconti) stanno cambiando le esigenze: circa la metà degli intervistati sarebbe infatti interessata ad acquistare, insieme alla rete fissa, servizi tv o servizi di sicurezza online e tutela della privacy.

Mancanza di chiarezza per il contenuto delle offerte

Ancora oggi però molte famiglie faticano però a comprendere il contenuto delle offerte e le differenze tra i servizi proposti. Sorprende che questo fenomeno riguardi soprattutto i più giovani (35% fra i 18-24 anni), che ritengono le offerte dei servizi di telecomunicazione difficili da comprendere.
Una conferma della mancanza di chiarezza arriva anche dall’analisi delle offerte per i nuovi clienti: uno su due reputa difficile comprendere quale sia il pacchetto migliore. La confusione si traduce anche in scarsa fedeltà: circa un quarto dei clienti prevede di cambiare il proprio fornitore di servizi internet, linea mobile o video streaming e pay tv nei prossimi 12 mesi.

Preoccupazioni per la privacy, il benessere e la sostenibilità

Quanto alla privacy, riferisce AGI, il 63% degli italiani afferma di essere estremamente prudente nel condividere informazioni personali online. Gli utenti sono preoccupati anche per l’intreccio tra tecnologie e benessere: uno su tre pensa spesso all’impatto negativo di internet sul proprio benessere psicofisico (41% tra i 18-24 anni). Emergono poi forti preoccupazioni per i contenuti illeciti. Il 61% ritiene che i governi e le autorità di regolamentazione non stiano facendo abbastanza per contrastare la diffusione di contenuti dannosi online. La platea digitale italiana si dimostra attenta anche alla sostenibilità. Il 38% è disposto a pagare di più per prodotti sostenibili, ma il 43% ritiene che gli operatori non stiano facendo abbastanza per l’ambiente.

Come e quando finirà la pandemia da Covid-19?

Da ormai oltre due anni il Covid-19 caratterizza la nostra vita e le nostre attività quotidiane, e tutti ci stiamo chiedendo quando usciremo in via definitiva da questa pandemia globale. Già a dicembre 2021, il sondaggio internazionale Ipsos condotto in 33 Paesi, ha esplorato le prospettive degli intervistati sul tanto agognato ritorno alla normalità post-Covid. Dall’inizio della pandemia, il team Public Affairs di Ipsos indaga infatti le opinioni degli italiani in merito all’emergenza Covid-19. In particolare, il livello di preoccupazione per le conseguenze, come e quando finirà la pandemia, il punto di vista sui vaccini e la campagna vaccinale, e le opinioni su Green Pass e Super Green Pass. E ora Ipsos ha pubblicato i risultati del 9° monitoraggio.

Le ultime notizie in Italia

Secondo l’ultima rilevazione, il 12% degli intervistati dichiara che la pandemia è praticamente finita (-1% rispetto al mese scorso), il 48% (+3%) ritiene che il Covid-19 con le giuste precauzioni non rappresenti più una minaccia, il 29% (-3%) si reputa invece ancora attento, sostenendo che il virus rappresenti tuttora una minaccia, nonostante se ne parli di meno. Invariata invece la quota di italiani, pari a poco più di uno su cinque, che oggi vive il Covid come una minaccia ‘elevata o molto elevata’ per sé o per i propri familiari. Calano però di qualche punto quanti si ritengono maggiormente tranquilli, e aumenta la quota di mancate risposte al sondaggio. Quanti ritengono che il peggio della pandemia sia definitivamente alle nostre spalle restano poco meno del 60% (58%, -1%), i più pessimisti (‘il peggio deve ancora arrivare’) sono fermi all’8% e aumentano di 5 punti le mancate risposte.

Dubbi in aumento sulla fine di ogni preoccupazione

Risale poi di qualche punto la previsione che nelle prossime settimane i contagi possano di nuovo tornare a crescere (44%, +4%), laddove il 39% (-8%) esclude l’eventualità, e anche in questo caso, aumentano le mancate risposte (17%, +4%). Dubbi in aumento anche riguardo all’orizzonte temporale in cui gli intervistati collocano in media la previsione della fine di ogni preoccupazione per il Covid-19. Sale infatti dall’11% al 20% la quota di mancate risposte: tra quanti si sbilanciano in una previsione diminuisce la media dei mesi indicati, tornando ai 16,2 mesi pronosticati ad aprile.

La pandemia oggi 

Scende inoltre di un paio di punti percentuali (15%) la quota di intervistati che dichiara di non conoscere nessuno che abbia contratto il virus in questi due anni e oltre di pandemia.
Ritenuta inevitabile da molti esperti virologi, gli intervistati continuano a dividersi tra quanti ritengono il mondo e l’Italia sufficientemente pronti ad affrontare una nuova pandemia e quanti, al contrario, sono pessimisti in proposito. Una quota che resta leggermente più alta rispetto agli ottimisti.